«Io sono la porta». Catechesi in preparazione al Giubileo delle famiglie

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Il rito del passaggio della Porta Santa durante gli anni giubilari affonda le proprie radici nel medioevo, quando la visita ad alcune chiese particolari, durante i pellegrinaggi, permetteva di ricevere delle indulgenze.

Si ha notizia che nel 1423, durante uno dei giubilei della redenzione, si istituì il passaggio della Porta Santa nella basilica di San Giovanni in Laterano – facendo di essa la più antica delle porte sante delle basiliche papali –. Successivamente, nel 1500, si stabilì l’apertura delle porte sante anche alle altre basiliche papali romane.

L’attraversamento della Porta Santa segna il passaggio dal peccato alla grazia.

Fino al 2000 le porte sante, dopo la loro chiusura, venivano murate e, per ogni nuova apertura, bisognava abbattere il muro per aprirle. La simbologia stava a significare che, per effettuare questo passaggio dal peccato alla grazia, era necessario rimuovere, anche con fatica, gli ostacoli che non permettono l’attraversamento della soglia della grazia.

Dopo il 2000 la prassi di murare le porte sante venne abbandonata per facilitarne l’apertura in casi eccezionali.

Nella Scrittura, la figura della porta, oltre che evocare l’idea del passaggio, è legata al tema della giustizia e, quando è chiusa, è come una barriera che non permette di entrare se non su invito.

Dall’Antico Testamento, infatti, si sa che l’amministrazione della giustizia viene fatta alle porte della città, mentre per quanto riguarda l’idea di barriera esistono due detti – uno dell’Antico e uno del Nuovo Testamento e contrapposti tra loro – che mostrano la stessa idea: «il peccato è accovacciato alla tua porta» (Gen 4,7) e «ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Qui, ovviamente, si sta parlando simbolicamente della porta del cuore dell’uomo, della sua vita. La scelta è far entrare il peccato o il Signore. Colui al quale verrà permesso di attraversare la porta del cuore è quello che poi prenderà dimora in esso e influenzerà la vita dell’uomo[1].

La citazione fondamentale, però, che dà il senso pieno all’idea della Porta Santa e del suo attraversamento la troviamo in un discorso di Gesù riportato nel Vangelo secondo Giovanni, nei primi nove versetti del capitolo decimo:

1“In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. 6Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.

7Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,1-9).

In questo brano, la porta compare tre volte, all’inizio, al versetto primo, senza una connotazione particolare. Essa svolge “semplicemente” la sua funzione di passaggio e di filtro. È il luogo attraverso cui entrare e uscire dal recinto delle pecore e svolge la funzione di garantire la bontà di chi ha la facoltà di attraversarla: il pastore può entrare e uscire dalla porta perché è conosciuto dal guardiano; il ladro, invece, deve entrare nel recinto da un’altra parte perché non potrebbe attraversare la porta, perché il guardiano glielo impedirebbe, non essendo il legittimo pastore.

Nei versetti sette e nove, invece, la porta acquista un significato più profondo: Gesù stesso si paragona alla porta. Tutto quello che si può esplicitare dalla simbologia della porta lo si può applicare in pienezza a Cristo.

Nel versetto nove, Egli stesso fa questo passaggio di simbologia: come la porta serve per entrare ed uscire, anche chi passa attraverso Cristo può entrare e uscire e trovare pascolo.

Soffermiamoci su questi concetti: attraversare Cristo; entrare e uscire.

Come si può attraversare Cristo? Cosa significa passare attraverso di Lui? Per prima cosa bisogna affermare che, se Cristo si identifica con la porta, è perché Egli vuole essere un mezzo attraverso cui raggiungere un fine. E quale sia questo fine lo troviamo in un’altra sua affermazione, sempre contenuta nel Vangelo secondo Giovanni: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).

Arrivare al Padre, questo è l’obiettivo definitivo di ogni cammino cristiano.

La prima cosa che possiamo domandarci, nel prepararci a varcare la Porta Santa nel giubileo delle famiglie è proprio questa: “sono consapevole che il fine del cammino cristiano è l’incontro con il Padre? Vivo la mia vita con questo scopo? Oppure la mia vita è mossa da altri obiettivi? Se sì, questi obiettivi sono ‘compatibili’ con lo scopo cristiano di arrivare al Padre?”

Definito l’obiettivo è, allora, capire come raggiungerlo. La via è Cristo. Egli è la porta che dà accesso al Padre. Attraversare Lui significa, con altre parole, seguire la via da Lui tracciata. Non è un attraversamento fisico, quindi, quello che ci viene richiesto, ma l’imitazione di un esempio, il ripercorrere le stesse strade che Lui, il Maestro, ha percorso in prima persona.

Con poche parole: è mettere in pratica il Vangelo.

Essere discepoli di Cristo, allora, comporta, spiritualmente, attraversare Lui come una porta, poter entrare e uscire e trovare pascolo. Ma dove entriamo e dove usciamo ogni volta che attraversiamo Cristo?

Nell’attraversalo in entrata, noi veniamo condotti all’interno del recinto delle pecore, in quell’ovile che, simbolicamente, è la Chiesa, la comunità dei credenti in Cristo.

In uscita, troviamo, invece, il mondo, quel luogo che è pascolo, ma che è anche missione.

L’ovile, la Chiesa, è il luogo di riparo, dove le pecore stanno al sicuro dai pericoli del pascolo aperto.

Il pascolo aperto è il luogo di un nutrimento “più genuino”, inteso come meno controllato, dove l’erba potrebbe essere più verde, ma potrebbe anche essere più rada o colpita da qualche malattia (il fieno dell’ovile, invece, è controllato). Il pascolo aperto, poi, è esposto maggiormente ai pericoli: da una parte i predatori, dall’altra il rischio di qualche pecora che, pascolando, si smarrisce dal resto del gregge.

Al gregge servono entrambi: serve l’ovile e serve il pascolo all’aperto. Così come alla comunità cristiana: serve la sicurezza della Chiesa, che custodisce la genuinità del messaggio di Cristo, e serve il campo della missione, dove entrare in contatto con il mondo che ha cose buone da dare, ma anche pericoli da evitare. E, nel mondo, il gregge potrebbe trovare anche qualche altra pecora da condurre con sé.

Attraversare la Porta Santa nell’anno giubilare, allora, non è solo un gesto rituale, ma fortemente simbolico.

In quell’attraversamento il cristiano sta dicendo di voler seguire Cristo, che è la via, attraversarlo come una porta, perché vuole andare incontro al Padre.

Ma che vuole fare questo insieme al resto della comunità, al gregge a cui appartiene.

Che vuole stare nella sicurezza della Chiesa e, con essa, vuole vivere nel mondo per condurre altri, insieme con lui, all’interno di quell’ovile.

Appendice: l’indulgenza legata all’attraversamento della Porta Santa

Parlare di indulgenza significa dover affrontare e approfondire discorsi intorno ai seguenti temi: pena, colpa e purgatorio. E, specie, su quest’ultimo, bisognerebbe affrontare questioni sulla metafisica, la temporalità, ecc. Riservandoci di fare questo in un altro momento (forse nel prossimo cammino annuale per adulti?), qui diciamo solo la questione tecnica dell’indulgenza, dovendoci fidare della sapienza e dell’insegnamento della Chiesa.

Tecnicamente parlando, ogni qualvolta si commette un peccato, commettiamo una colpa alla quale è associata una pena. Nel caso di un peccato mortale la pena è eterna e temporale, mentre nel caso di un peccato veniale essa è solo temporale. La pena eterna è la separazione definitiva dalla grazia, la pena temporale è una sorta di “disordine” o “ferita” non grave, ma che provoca dolore.

Nella confessione sacramentale viene cancellata la colpa e la pena eterna (nel caso di un peccato mortale), mentre resta traccia della pena temporale.

Per la purificazione della pena temporale è possibile fare delle penitenze o, se morti, si passa per la condizione del Purgatorio.

L’indulgenza è questa facoltà che la Chiesa ha di eliminare ogni traccia di pena temporale attraverso segni rituali come, in questo caso, il passaggio della Porta Santa.


[1] Da notare come i due detti stanno agli estremi opposti della Bibbia – quello sul peccato è contenuto in Genesi, mentre quello sul Signore è riportato in Apocalisse –. Come a dire che, percorrendo tutta la Bibbia, l’essere umano fa anche un percorso spirituale e che, se all’inizio è vicino al peccato, alla fine del pellegrinaggio avrà la possibilità di accogliere il Signore.

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