Il peccato originale e il disfacimento del modello familiare

INTRODUZIONE

Probabilmente l’armonia originale narrata in Gen 1 e 2 non è mai esistita nella concretezza, ma quei racconti, posti all’origine della storia della salvezza, rappresentano, in realtà, l’obiettivo definitivo, o l’ideale al quale ogni famiglia umana deve guardare per provare ad incarnarlo nel miglior modo possibile.

Allo stesso modo, anche il famoso episodio del peccato originale non è storico nel modo in cui noi oggi intendiamo questo concetto. In effetti, il racconto appartiene (come tutti i primi undici capitoli di Genesi) a quel genere letterario che potremmo definire “eziologico”, cioè una narrazione leggendaria[1] che colloca in un passato indefinito le cause che servono a giustificare alcune “contraddizioni” e limiti che l’umanità sperimenta nel suo oggi concreto.

L’episodio narrato, in sintesi, serve a comprendere perché quella creazione originale e ideale non trova pienamente riscontro nella vita quotidiana – in questo caso delle famiglie –, perché quell’essere uno di fronte all’altro alla pari è sostituito, per esempio, dal dominio di uno sull’altra; oppure perché, invece di quella capacità di dialogo che dovrebbe sostenere l’identità di ciascuno, si sperimentano silenzi “assordanti” che indeboliscono i legami; oppure perché, a quel camminare sulla stessa strada l’uno accanto all’altro, si sovrappongono passi dissonanti e strade diverse e divergenti.

Al tempo stesso, però, quello stesso racconto ci parla di un Dio che, invece di punire con la pena promessa – cioè la morte –, si fa prossimo e riprende il dialogo con coloro che l’hanno voluto rifiutare, accompagnando l’umanità in un processo pedagogico che sfocerà, poi, con il dono di suo Figlio per la redenzione definitiva da quel peccato.

Dal libro della Genesi (3, 1-24)

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

Poi udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo, con sua moglie, si nascose dalla presenza del Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?». Rispose l’uomo: «La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato».

Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, maledetto tu fra tutto il bestiame e fra tutti gli animali selvatici! Sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà». All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: “Non devi mangiarne”, maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!».

L’uomo chiamò sua moglie Eva, perché ella fu la madre di tutti i viventi. Il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì.

Poi il Signore Dio disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita.

COMMENTO

Il brano offre diversi livelli di interpretazione.

  1. La prima cosa che emerge è proprio il suo carattere eziologico: l’uomo “concreto” sperimenta la fatica del lavoro quotidiano e la donna il dolore del parto. Di fronte a queste sofferenze ci si domanda, ancora oggi, del perché della loro esistenza, a fronte della fede di un Dio provvidente e amorevole. Questo racconto prova a dare una risposta “logica” a queste contraddizioni: è a causa della ribellione dei progenitori di tutta l’umanità che Dio l’ha voluta punire con questi dolori e queste difficoltà.
  2. Un secondo livello di interpretazione è quello della dinamica del peccato (e di ogni peccato in generale). Nessuno, sano di mente, commette un peccato con la volontà di voler commettere il male. Se uno fa una cosa sbagliata è perché pensa che comunque raggiunge un bene – passeggero e frivolo che sia, ma sempre considerandolo un beneficio per sé –. Oppure la trasgressione del divieto è motivata dal fatto che quel divieto sembra esagerato. È quello che è successo in questo caso: il serpente inizia esagerando il divieto posto da Dio («È vero che Dio ha detto: “Non dovete mangiare di alcun albero del giardino”?». Cosa non vera, il comando impediva solo di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male); la donna, la quale non ha sentito direttamente il comando – che era stato dato quando c’era solo l’uomo –, corregge il serpente, ma comunque esagerando («Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: “Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete”». Toccare era possibile!).
    1. Quindi ecco il primo “errore”: non si comprende bene il divieto, che viene esagerato e quindi diventa incomprensibile e risulta sbagliato alla comprensione di chi lo deve rispettare.
    1. Nel secondo passaggio, poi, l’esagerazione del divieto si accompagna al desiderio di avere il proprio beneficio: la donna si avvicina all’albero e ne prende un frutto e non succede nulla (perché non c’era il divieto di toccarlo). E questo diventa, implicitamente, la conferma che quel divieto è sbagliato: l’ho toccato e sono ancora vivo, quindi posso anche mangiarlo e, se lo mangio, acquisterò saggezza. Non c’è nulla di male, solo cose positive.
    1. Qual è il beneficio che si vuole raggiungere trasgredendo il comando: diventare come Dio, cioè conoscere il bene e il male. La trasgressione al comando significa, di fatto, il rifiuto di Dio e del bisogno di lui: voglio bastare a me stesso; voglio essere io a decidere ciò che è bene e ciò che è male; non voglio che sia un altro, neanche Dio, a dirmi quello che devo o non devo fare. Sul momento sembra un beneficio auspicabile, ma, poi, si rivela la fonte di ogni male!
  3. Un terzo livello interpretativo, infine, manifesta quale sia il vero peccato originale. Lo “scaricabarile” a cui si assiste – dove l’uomo scarica la colpa sulla donna e quest’ultima la rigira sul serpente – è la volontà di non rendersi responsabili delle proprie azioni, cercando una giustificazione alternativa e rimpallando le responsabilità su altri.

Responsabilità è una parola composta che viene dai termini “rispondere” e “abile” e significa, letteralmente, essere abili a rispondere, in questo caso, delle proprie azioni. In altre parole, sapersi prendere oneri e onori dei propri atti. Di fronte alla richiesta di spiegazione di quanto è successo, l’uomo e la donna hanno rifiutato la loro responsabilità, cioè non hanno voluto rispondere in prima persona di quello che hanno fatto, ma hanno giustificato i loro atti imputandoli a condizionamenti esterni.

Di tutti e tre i livelli interpretativi, quest’ultimo è quello che più interessa la vita di coppia e delle relazioni in generale. L’egoismo e il desiderio di avere dei benefici personali, delle volte e spesso anche a scapito degli altri, possono portare a compiere azioni che, se danno un appagamento momentaneo a chi le compie, sono un “danno” – piccolo o grande – per le altre persone. La responsabilità delle proprie azioni – l’essere abili a rispondere di quello che si è fatto – è la chiave di volta di relazioni sane e mature. Sminuire le proprie colpe, oppure provare a giustificarle con influenze esterne o altro, è il vero peccato, perché non si vuole ammettere la propria colpa, mentre questo è il primo passo per una riconciliazione, con Dio e con gli altri. Riconciliazione che potrebbe passare anche attraverso delle “punizioni”, ma che diventano correttive e non condanne definitive, come invece accade quando non si vuole riconoscere la propria responsabilità.


[1] Qui, con il termine “leggenda” si vuole intendere un racconto dove la storicità degli eventi è deformata e/o arricchita con elementi mitici e fantasiosi, per far sì che attraverso di esso venga veicolato, più che il resoconto esatto dell’evento, un significato morale e teologico.