Brano scritturistico
1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”. 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”. 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. 9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: “Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti”.
Riflessione
Possiamo distinguere il brano in tre parti, che andremo poi a commentare di seguito:
- l’introduzione, composta dal primo versetto del brano;
- il nucleo centrale che ci racconta della trasfigurazione e della reazione dei discepoli;
- la conclusione, cioè i versetti dal settimo al nono.
Nell’introduzione al brano, quindi, viene detto che quest’episodio della trasfigurazione si pone, cronologicamente, SEI GIORNI DOPO. Questa indicazione ha un duplice valore:
- da una parte non è altro che un’indicazione temporale, che serve all’evangelista per continuare il suo racconto e a collegare quest’evento con quelli precedenti (nei giorni precedenti si pongono: delle dispute con i farisei; alcuni miracoli; la seconda moltiplicazione dei pani; e la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo);
- d’altra parte, però, l’indicazione ha anche un valore teologico. Sappiamo che nella Bibbia il numero sei dice un’imperfezione. Sette è uno dei numeri perfetti (perché di sette giorni è composta la settimana), per cui il sei, essendo sette meno uno, dice un qualcosa di manca all’essere perfetto.
In qualche modo, qui l’evangelista ci sta già avvisando che quello che sta narrando, per quanto possa sembrare splendido e straordinario, non è ancora il culmine. Gesù mostrerà la sua gloria con la trasfigurazione, ma questa gloria non è ancora perfetta. A questa gloria manca ancora qualcosa. E quello che manca è proprio la passione della croce, la sola attraverso la quale Gesù può raggiungere la perfezione con la risurrezione di Pasqua.
Dopo aver dato quest’indicazione sia temporale che teologica, l’evangelista annota che GESÙ PRESE CON SÉ PIETRO, GIACOMO E GIOVANNI. Anche la presenza di questi discepoli vuole essere una sorta di “campanello d’allarme”, che l’evangelista suona per avvisare che quello che si sta narrando ha del particolare.
Pietro, Giacomo e Giovanni, oltre che essere i discepoli della prima ora – quelli che Gesù chiama per primi sulla riva del lago di Galilea –, sono anche quelli che il Signore associa sempre a sé nei momenti particolari della sua vita: sono presenti solo loro al miracolo della risurrezione della figlia di Giairo; solo loro ci sono quando guarisce la suocera di Pietro; e sempre e solo loro sono presenti nell’agonia all’orto del Getsemani.
Il perché di questa predilezione particolare di Gesù per questi tre non è chiaro nei Vangeli. Paolo, nella lettera ai Galati, dice che sono ritenuti le colonne, cioè quelli che danno stabilità, che tengono in piedi la comunità cristiana. Dei punti di riferimento solidi, forse proprio perché Gesù li aveva associati a sé in momenti particolari della sua vita. Di fatto, se dai vangeli conosciamo gli episodi della guarigione della suocera di Pietro, dell’agonia nel Getsemani, della trasfigurazione e della risurrezione della figlia di Giairo, è solo grazie a loro e alla loro testimonianza.
Al di là, quindi, della curiosità del perché questi tre, e non altri, hanno ricevuto un trattamento particolare da parte del Signore, bisogna dire e sottolineare che la nostra fede – quello che è contenuto nei Vangeli e quello che crediamo – si basa su quello che loro hanno vissuto e che hanno testimoniato. La nostra fede, in fondo, è un atto di fiducia nella testimonianza di alcuni uomini scelti dal Signore e quelli che credono anche grazie alla nostra testimonianza sono persone che si fidano di quello che gli diciamo noi. La cosa, invece, di metterci un dubbio su quello che crediamo, dovrebbe essere di “gratificazione”, perché il Signore ci considera all’altezza di affidarci la responsabilità della fede di altre persone. Come altri sono stati responsabili della fede che ci hanno trasmesso.
Questi tre, Gesù LI CONDUSSE SU UN ALTO MONTE. Come il numero sei, anche il monte non ha solo una valenza ordinaria, in questo caso geografica, ma anche teologica.
Nella Bibbia le montagne e, in generale, le alture sono i luoghi in cui l’uomo può incontrare Dio e il luogo in cui Dio stesso si rivela. Basti pensare a Mosè: l’episodio del roveto ardente avviene sulla cima del monte Oreb (chiamato il “monte di Dio”); mentre il dono dei dieci comandamenti avviene su un altro monte, il Sinai.
Andare sul monte, per i discepoli, sta a significare la loro possibilità di incontrare Dio. Che è poi quello che avverrà da lì a poco.
Non solo li condusse su un alto monte, ma anche IN DISPARTE. Questo perché stare sul monte non è sufficiente per fare esperienza di Dio. C’è bisogno di qualcos’altro: lo stare in disparte.
Stare in disparte significa separarsi, isolarsi. Separarsi dall’ordinarietà della vita, dalla confusione di tutti i giorni, dalle persone che in continuazione distraggono l’attenzione.
Lo stare in disparte è essenziale per poter incontrare Dio, perché solo se non c’è confusione è possibile fare esperienza di Lui. Di nuovo, qui, Mosè è emblematico. C’è un momento, nella sua vita, in cui egli voleva vedere il volto di Dio. Il Signore gli permise di vedere le sue spalle, ma per farlo Mosè è dovuto salire di nuovo su un monte, stare in una grotta e aspettare che Dio passasse da lì.
Un altro profeta ha avuto un’esperienza simile, cioè quella di stare alla presenza diretta di Dio, sempre su di un monte e sempre in una grotta ad attendere: il profeta Elia, che, proprio insieme con Mosè, apparirà ai tre discepoli durante la trasfigurazione. Qui la necessità di essere “concentrati” per poter comprendere di essere alla presenza di Dio emerge ancora più chiaramente. Elia è in una grotta: fuori da essa iniziano a susseguirsi tutta una serie di manifestazioni straordinarie e “potenti”: un fuoco; un vento forte; e un terremoto. Il narratore scrive che Elia si accorge che in queste manifestazioni Dio non è presente. Poi, ad un certo punto, avviene l’incontro: Elia sente il sussurro di una brezza leggera e si prostra a terra, perché sa di essere alla presenza di Dio. Il sussurro di una brezza leggera è un qualcosa di tanto passeggero e flebile che nella confusione di tutti i giorni Elia non avrebbe avuto modo di poterlo percepire. Solo stando isolato dal trambusto quotidiano ha avuto l’occasione di essere tanto concentrato e attento per poter captare questa presenza quasi invisibile di Dio nella sua vita.
Dopo aver preparato il lettore con questo versetto introduttivo che abbiamo commentato, l’evangelista Matteo, finalmente, va subito al nucleo del racconto e ci dice che Gesù FU TRASFIGURATO DAVANTI A LORO. Tutta la preparazione fisica e spirituale dei tre discepoli, e anche quella del lettore, ha questo obiettivo: mostrare lo splendore del Signore trasfigurato. Gesù mostra ai tre amici un po’ di quella gloria che sarà tale una volta per tutte dopo la risurrezione. Lo abbiamo detto all’inizio. Qui stiamo ancora al sesto giorno, a quella gloria manca ancora un po’ per raggiungere la perfezione, ma già così i discepoli possono assaporare quello che sarà quando la settimana sarà completa, quando il Signore arriverà al settimo giorno, quello della domenica di Pasqua.
Dopo aver detto che il Signore fu trasfigurato, Matteo descrive il cambiamento che ha subito Gesù: IL SUO VOLTO BRILLÒ COME IL SOLE E LE SUE VESTI DIVENNERO CANDIDE COME LA LUCE. Probabilmente non esistono parole umane tali da descrivere in verità quello che i discepoli hanno sperimentato. Marco, per provare a far capire quando fossero splendenti le vesti del Signore trasfigurato, dirà che nessun lavandaio al mondo potrebbe riprodurre quel bianco candido. Matteo, invece, si concentra sul volto di Gesù, descrivendolo brillante come il sole.
Penso che almeno una volta tutti abbiamo provato a “sfidare” il sole e fissare lo sguardo su di esso, ma poco dopo abbiamo dovuto distogliere lo sguardo perché ci stava accecando. Al tempo stesso, tutti sentiamo la nostalgia della mancanza della luce solare, quando ci sono nuvole che nascondono il sole per una intera giornata, oppure quando, in inverno, le giornate di luce sono particolarmente corte. Così come stiamo piacevolmente sotto il sole in questo periodo in cui i suoi raggi hanno quella giusta temperatura da scaldarci in una giornata fredda.
Tratteggiare il volto di Gesù in questo modo, per l’evangelista, significa dirci tutto questo: è difficile fissare il volto di Cristo per tutta la nostra vita, cioè: è complicato essere cristiani veri e mettere in pratica tutti i suoi insegnamenti fino alla fine. Al tempo stesso, però, una volta che abbiamo fatto veramente esperienza di Lui, quando non riusciamo a sentirlo o la nostra vita ci oscura la sua presenza, ne sentiamo la nostalgia.
Ma il miracolo della trasfigurazione non termina con questo cambiamento fisico di Gesù. Succede anche altro, in particolare APPARVERO LORO MOSÈ ED ELIA, CHE CONVERSAVANO CON LUI. Di Mosè ed Elia abbiamo già detto qualcosa. Sono i due personaggi dell’Antico Testamento che, come i discepoli adesso, su un monte e in disparte sono riusciti a stare alla presenza di Dio. Ma c’è una differenza sostanziale che, addirittura, fa sì che Pietro, Giacomo e Giovanni riescono a sperimentare una cosa che neanche quei due grandi personaggi dell’Antico Testamento sono riusciti a vivere. Loro due, pur desiderandolo, non hanno mai visto Dio in faccia (Mosè ne vede solo le spalle; Elia ne sperimenta la presenza nascosta nella flebilità del sussurro leggero della brezza). Questi tre, invece, anche se con la difficoltà di fissare lo sguardo sul sole, possono vedere il volto di Dio in Gesù. Lo stesso Signore è consapevole della “fortuna” che i suoi discepoli hanno avuto rispetto ai grandi personaggi dell’Antico Testamento, tanto che dirà loro: «beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».
Inoltre, Elia e Mosè rappresentano figuratamente tutto l’Antico Testamento e la storia di Israele che ha portato fino a Gesù. Da una parte questo sta a dire che il Signore rappresenta finalmente il compimento di quelle promesse che Dio ha fatto ad Israele durante la sua storia, ma, dall’altra, significa anche che, se Gesù è lì in quel momento, è anche grazie a quella storia. Gesù è lì, perché ci sono state delle persone che, con la loro vita, hanno fatto sì che le cose andassero come sono andate. Pensiamo anche solo al ruolo svolto da Maria nella storia della salvezza: tutta la vicenda terrena di Gesù è stata possibile grazie a quel sì che quella ragazza come tante, in un momento qualunque della storia e in un posto del tutto sconosciuto, ha detto sì. C’è una bella omelia di Bernardo di Chiaravalle in merito a quel sì che ha cambiato l’esistenza umana.
Dice san Bernardo: «hai udito, Vergine, che concepirai e partorirai un figlio; hai udito che questo avverrà non per opera di un uomo, ma per opera dello Spirito santo. L’angelo aspetta la risposta; deve fare ritorno a Dio che l’ha inviato. Aspettiamo, o Signora, una parola di compassione anche noi, noi oppressi miseramente da una sentenza di dannazione. Ecco che ti viene offerto il prezzo della nostra salvezza: se tu acconsenti, saremo subito liberati. Noi tutti fummo creati nel Verbo eterno di Dio, ma ora siamo soggetti alla morte: per la tua breve risposta dobbiamo essere rinnovati e richiamati in vita. Te ne supplica in pianto, Vergine pia, Adamo esule dal paradiso con la sua misera discendenza; te ne supplicano Abramo e David; te ne supplicano insistentemente i santi patriarchi che sono i tuoi antenati, i quali abitano anch’essi nella regione tenebrosa della morte. Tutto il mondo è in attesa, prostrato alle tue ginocchia: dalla tua bocca dipende la consolazione dei miseri, la redenzione dei prigionieri, la liberazione dei condannati, la salvezza di tutti i figli di Adamo, di tutto il genere umano».
Fino a questo momento, i discepoli appaiono solo come spettatori, messi in secondo piano rispetto a tutto il resto. Questa situazione viene interrotta da Pietro. PRENDENDO LA PAROLA, PIETRO DISSE A GESÙ: “SIGNORE, È BELLO PER NOI ESSERE QUI! SE VUOI, FARÒ QUI TRE CAPANNE, UNA PER TE, UNA PER MOSÈ E UNA PER ELIA”. Pietro si rende conto di stare a vivere un momento particolarmente bello e speciale e, quasi sicuramente, irripetibile della sua vita. Ancora non sa che vedrà una gloria ancora maggiore nel Signore risorto.
La sua tentazione, quindi, è quello di congelare quel momento perché non passi mai. Anche se questo dovesse significare perdere delle glorie maggiori. Vuole fare delle capanne. Cioè, vuole costruire delle case per quei personaggi, così che possano restare lì per sempre e non abbiano la necessità di andare più via. Questo perché è Pietro che non vuole più andare via da lì, perché lì sta bene e non vorrebbe più ridiscendere da quel monte.
La scena cambia nuovamente e, dopo l’intervento di Pietro, c’è quello di Dio stesso, introdotto narrativamente dalla NUBE LUMINOSA. Nella Bibbia, la nube è segno della presenza di Dio. Basti pensare all’esodo degli israeliti nel deserto: dopo la consegna delle tavole della legge sul monte Sinai, Mosè costruì l’arca dell’alleanza e una tenda dove custodirla quando Israele si accampava tra una tappa e l’altra del suo pellegrinare. Ogni volta che la tenda veniva eretta e ci si poneva dentro l’arca, dice l’autore dell’esodo, che una nube scendeva sulla tenda, perché Dio era lì e finché la nube non fosse andata via Israele restava accampato in quel luogo.
Quindi, in questo momento, i discepoli sanno di essere alla presenza diretta di Dio, per questo hanno timore e si prostrano a terra.
Però l’evangelista ci dice un’altra cosa di questa nube: essa è luminosa. Anche questo è un riferimento all’esodo e, meglio, al momento della fuga di Israele dall’Egitto. Infatti, mentre si stanno dirigendo verso il Mar Rosso e vengono inseguiti dagli egiziani, si dice che Dio manda una nube, che per gli israeliti è luminosa e illumina il cammino anche di notte, mentre per gli egiziani è oscura e li ostacola nella rincorsa, così che non potevano raggiungere i fuggitivi.
Dio, quindi, può essere luce oppure anche notte per le persone. È luce che illumina il cammino, come per gli israeliti che fuggono dall’Egitto, per tutti coloro che vogliono staccarsi dalla loro condotta antievangelica (l’Egitto è simbolo del male per Israele). È notte, invece, per coloro che si identificano con gli egiziani, cioè per chi vuole restare nel proprio peccato. È notte perché, in questo caso, Dio è colui che ti mostra il tuo peccato, ma tu non vuoi vederlo e allora chiudi gli occhi e fai notte nella tua vita.
Alla fine, dopo la nube e la voce del Padre e dopo che i discepoli si prostrano a terra perché sanno di essere alla presenza di Dio, arriva l’intervento di Gesù a chiudere tutta la scena. ALZATEVI E NON TEMETE dice ai discepoli. Con Gesù Dio si fa prossimo a noi e noi non dobbiamo più avere paura di Lui. Spesso Dio ci viene rappresentato distante: quest’uomo anziano, con la barba lunga e i tratti del viso duri, che mette timore e a cui non ci si può, e non ci si deve, avvicinare. In realtà Dio è vicino a noi e vuole essere nostro amico e confidente. Si può stare in piedi davanti a Lui e non per forza sdraiati a terra con il volto prostrato. Si può stare alla sua presenza senza avere paura di Lui. Se non stiamo nel torto non abbiamo motivo di avere paura di Dio. Se, invece, siamo nell’errore e nel peccato possiamo avere il coraggio di andare di fronte a lui e lasciare che sia Lui ad illuminarci con la sua nube luminosa: basta non chiudere gli occhi di fronte al nostro peccato e chiedere scusa.
Invitati da Gesù, i tre discepoli, alla fine, alzano GLI OCCHI e NON VIDERO NESSUNO, SE NON GESÙ SOLO. A prima vista questa annotazione dell’evangelista sembra malinconica. Dopo tutta la preparazione, dopo tutto lo splendore della trasfigurazione, dopo aver addirittura sentito la voce di Dio, il timore di Pietro, di perdere la bellezza di quel momento, sembra essersi avverato. Tutto sembra finito. Alla fine, sono tornati a prima della trasfigurazione, con solo Gesù accanto a loro.
In realtà, questa nota va letta in positivo: è l’affermazione di chi raggiunge una maturità spirituale tale da comprendere che, in fin dei conti, quello che conta non è lo splendore della trasfigurazione, la straordinarietà dell’evento miracoloso di stare alla presenza di Mosè ed Elia e, neanche, quella di sperimentare direttamente la voce o la presenza gloriosa di Dio. L’unica cosa che conta davvero è Gesù solo.
In fondo, l’evento della trasfigurazione è la sintesi di una maturazione spirituale che tutti noi dovremmo prima o poi fare: avere il desiderio di cercare il Signore; prepararci ad incontrarlo anche riuscendo a ritagliarci momenti di solitudine dove è più facile fare esperienza di Lui; provare a trattenere nella nostra vita l’esperienza dell’incontro con Lui; e, infine, non contare su nulla di questo per il nostro benessere spirituale, perché dovremmo aver compreso che quello che conta non sono gli effetti positivi della presenza di Dio nella nostra vita, ma il solo fatto che Lui sia presente in noi, al di là del benessere o meno che possa o voglia donarmi.
Arrivare alla consapevolezza che ciò che importa è Gesù solo, vuol dire raggiungere il massimo dell’amore, il cui estremo contrario è il mercato del contraccambio. In questo secondo caso, io cerco Dio e rispetto i suoi comandamenti con la speranza che Egli mi doni quello che cerco (la salute, il lavoro, ecc.). Nel primo caso, invece, io amo e basta. Non mi serve nulla in cambio per continuare ad amare.
E questa cosa vale anche per le relazioni umane. Se io amo veramente una persona, lo faccio a prescindere da quanto ella contraccambia o meno il mio amore e quello che io faccio per lei. L’amore è a senso unico. Amare aspettandomi qualcosa in cambio è il principio del mercato: voglio una cosa e per averla faccio un’altra cosa di valore simile, costringendo l’altra persona a farmi quello che chiedo, perché si sente in dovere di contraccambiare.
Per concludere allora, il percorso spirituale proposto dalla trasfigurazione vuole condurci a quello che sant’Ignazio di Loyola dice rispetto al fatto che ogni tanto Dio sembra sparire dalla nostra vita: «il Signore vuole provare quanto valiamo e quanto andiamo avanti nel suo servizio e nella sua lode, anche senza un’abbondante elargizione di consolazioni e di grandi grazie». San Bernardo da Chiaravalle diceva a proposito: più che cercare le consolazioni di Dio, dovremmo cercare il Dio delle consolazioni.
Vi lascio, allora, alcune piste per la riflessione personale, con la speranza che quello che ci siamo detti oggi possa essere ripreso e rimeditato durante la settimana:
- Chi sono stati i nostri apostoli, cioè coloro che ci hanno annunciato Gesù? E verso chi, invece, noi siamo apostoli e annunciatori del Vangelo, chiedendo a questi di credere fidandosi di noi?
- Abbiamo il desiderio di incontrare Dio e fare esperienza di Lui? Ci prendiamo del tempo per andare sul monte in disparte per andare a ricercare Dio?
- Abbiamo mai avuto momenti forti di spiritualità nel quale possiamo dire di aver sperimentato la presenza di Dio nella nostra vita? Quanto quell’evento è importante per sostenere la mia fede?
- Dio è per me nube luminosa, alla cui presenza sto con serenità, oppure un’oscurità che mi mette di fronte ai miei peccati e per cui provo “paura e timore”?
- Perché credo? Perché voglio da Dio qualcosa in contraccambio oppure semplicemente perché amo Dio?